Il feudo dei pigri. Vita infinita di una libertà millantata

Il feudo dei pigri. Vita infinita di una libertà millantata

La colpa, caro Bruto, non è nelle stelle ma in noi stessi se siamo schiavi. (William Shakespeare).

Colori pastello sulla piazza dormiente.
Alle nove di mattina la brezza si dilegua e i raggi del sole intiepidiscono la scalinata che conduce al castello; il portone dell’osteria è socchiuso ma lascia trapelare rumori sommessi di tazze e stoviglie, mentre il profumo di caffè annuncia l’arrivo di un nuovo giorno.
L’oste, con un grembiule lercio e consumato, decide infine di aprire il locale sbuffando vistosamente nonostante la tarda ora, mentre dalle case vicine iniziano ad uscire un paio di audaci mattinieri.

“Il feudo dei pigri” lo chiamano nei paesi lì intorno e, a volergli fare un complimento, ci accontenteremo di questa definizione.

Bruno, signorotto locale, passeggia di rado oramai; disinteressato a ciò che lo circonda, risponde controvoglia agli ossequi e ai cerimoniosi saluti, dimostrando -come se fosse ancora necessario- il sottile disprezzo che prova verso quelle schiene da sempre lievemente piegate. Preferisce passare le giornate al castello, di cui ha rilevato la proprietà trent’anni orsono.
Con occhi acuti ha notato però che qualcuno si inchina meno del solito e che gli sguardi da sempre sfuggenti di alcuni si sono fatti più fermi negli ultimi tempi.
Troppo preso da acciacchi e routine, non ha dato importanza a questi cambiamenti quasi impercettibili, adducendoli a qualche stucchevole faida tra braccianti e pezzenti, fatta di orgoglio e di rozze occhiatacce.

Il feudo dei pigri si sveglia in ritardo, mentre nei campi circostanti si lavora da ore.
Bruno si affretta a rincasare proprio mentre uno struscio di scarpe rattoppate inizia ad investire la piazza. Artigiani e lavandaie, contadini e vaccari: tutti in posizione pronti per l’ennesima giornata di lavoro.

Le ore passano lievi tra qualche fatica e molte risate sguaiate fintantoché, poco prima di pranzo, un improvviso arrivo in fondo alla piazza fa scendere un fitto silenzio tra uomini e donne, gatti e galline.

Sguardo ottuso, occhi ravvicinati e spalle larghe: così potremmo definire il nuovo venuto.
Ha la camminata spavalda di chi é convinto di valere qualcosa e un atteggiamento sicuro che ostenta ad ogni respiro; attraversa la piazza in silenzio, scrutando però ogni sguardo curioso che osa sfiorarlo.

Il Prefetto, così lo chiamano bisbigliando, come se il lavoro del tizio in questione fosse un biglietto da visita più lustro del nome.


Residente nel feudo da meno di un anno, il Prefetto sortisce l’effetto di irretire anche gli sguardi più pigri che incrocia passando.
Elargisce solo pochi e mirati saluti a persone scelte apparentemente a caso, destando invidie tra qualche lazzarone che vorrebbe rientrare nella piccola cerchia di eletti.
D’improvviso, l’oste sfodera il migliore dei sorrisi (il ché lascia poco spazio all’immaginazione su come possa essere il peggiore di questi) e, sornione quanto basta, invita il Prefetto ad accomodarsi al tavolo migliore.

E qui inizia l’incanto: come in udienza dal Papa, un’ordinata processione di paesani si alterna al tavolo del Prefetto, ognuno con il suo dubbio da sciogliere, ognuno col suo quesito da sottoporre; tutti in cerca del consiglio più adatto per le questioni di vita vissuta e chi, meglio di lui, potrebbe fornirlo?
Il tutto avviene velocemente, ma non abbastanza da garantire cautela nelle confessioni dei convenuti.
Ognuno lascia qualcosa di sé in quelle chiacchierate fugaci: chi un piccolo intoppo legale, chi un piccolo fantasma morale.
Il prefetto ascolta con freddezza sul viso e dispensa consigli lapidari, consapevole del potere che riesce ad esercitare su quella sparuta adunata di gente.
La sua mente, però, è altrove: nelle sfumature dei racconti, negli occhi colpevoli e sfuggenti, nelle mani nervose dei suoi interlocutori, piene di calli e di nefandezze taciute.

Ognuno di noi ha un segreto, pensò.

Ma ognuno di noi lo rivela ad una persona di troppo.

Una sottile linea unisce i racconti degli sciocchi malcapitati che si alternano sulla sedia di fronte a lui: la crescente insofferenza verso il signor Bruno, presenza ingombrante nel feudo dei pigri.
Con carisma e molto denaro, la caratura di Bruno ha sempre influenzato le vicissitudini del feudo: quasi fosse il proprietario del luogo, il signore in questione si è mosso sin dal suo arrivo con la mano pesante di chi ottiene sempre tutto quello che vuole.
I residenti di zona, come dei veri e propri vassalli, si sono adeguati alla situazione, sempre accomodanti e remissivi pur di non entrare in contrasto col nuovo potente venuto.
Soprattutto, però, pur di continuare con i propri miserevoli interessi senza che alcuno ci mettesse bocca. E se qualcuno dall’esterno del feudo osava avvicinarsi turbando la quiete precaria che si era venuta a creare, la reazione compatta non tardava a venire: un muro granitico di prepotenza e viltà, di sasso lanciato e di mano nascosta.
Finche i malcapitati non rinunciavano o si rassegnavano a soccombere alle leggi del feudo.

Solo la vecchiaia incipiente di Bruno ha infuso coraggio -se proprio così vogliamo definirlo- nei cittadini del feudo. Dopo una vita trascorsa a schiena piegata, fatta di frustrazione scaricata sul più debole del momento, provano ora a rialzare la testa, con il piglio ottuso di chi cerca la forza laddove per anni ha regnato solo la propria ignavia.

La colpa, caro Bruto, non è nelle stelle, ma in noi stessi se siamo schiavi.

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Finite le consulenze, il Prefetto lascia l’osteria e si dirige verso casa nella parte opposta della piazza rispetto al castello di Bruno; un ambiente spartano lo accoglie al suo ingresso, fatto di pareti bianche lungo le quali si aprono tre finestre ad arco che ricordano il refettorio di una scuola.

Sui muri ci sono solo un crocifisso e il ritaglio sbiadito di un vecchio giornale, incastonato in una pregevole cornice di legno.


Il prefetto si mette a guardarlo.


Quel giorno sì che era stato qualcuno.
Prima di finire in periferia.


Prima del fattaccio.

Quando ancora viveva in città, la sua volontà cadeva come una scure sui malcapitati che gli si paravano innanzi, cosa che raramente mancava di rimarcare con una certa soddisfazione.

Essere confinato in periferia, lontano dalle stanze decisionali: questo davvero non l’aveva mai considerato.
D’altronde però l’errore c’era stato, greve e grossolano: si era mosso con troppa fretta e ne aveva pagato lo scotto, lasciando trasparire tra l’altro la vera natura dei suoi più intimi limiti.
Alla fine dell’inchiesta era riuscito a salvare il lavoro e la faccia, ma di certo non l’onore, visto che all’interno tutti sapevano.
Sapevano e lo giudicavano.

Inadatto, corrotto.

Ed ora eccolo li, ai limiti della civiltà, allontanato dai centri di potere e venerato da scansafatiche che prima mai avrebbe lasciato avvicinare; incastrato in una sorta di faida tra un vecchio megero e degli stolti qualunque, pronti a votarsi ad un nuovo padrone pur di riscattarsi da quello attuale.
Pronti a chinarsi davanti al suo sguardo sprezzante pur di avere, a loro volta, qualcuno da disprezzare.

In tal modo scorrono quindi le giornate nel feudo dei pigri: in un’esistenza infinita di libertà millantata.

E così, in una patetica danza di indecenza sommersa, lo scettro di un desolante potere slitta inesorabilmente di mano: da un anziano magnate annoiato, alla volta di un avido demone caduto dal cielo.

Meglio regnare all’Inferno, che servire in Paradiso. (John Milton)

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