L’altalena

L’altalena

1987.
Estate. Risate di bambini entusiasti, qualche adulto urla “state attenti a non scivolare!”.
Rumore di tuffi e schizzi d’acqua, calpestio d’erba.
Profumo di olio al cocco.


2021.
Era una fredda domenica di fine gennaio. Da qualche settimana passeggiava con costanza ogni pomeriggio, cercando di tornare a quello che una volta era stato il suo peso forma: 63 chili.
Un po’ troppi, secondo Vanity Fair, ma anche la sua amata bibbia laica ogni tanto sbagliava: la scorsa primavera aveva messo in copertina uno smanicato di jeans che neanche a Berlino Est, prima della caduta del muro, se ne erano visti di così brutti.
63 chili, su di lei, erano un compromesso più che accettabile.

Tuta nera, scarpe nere.
Umore nerissimo.
Percorso bellissimo, però.
Aveva iniziato così la sua passeggiata pomeridiana, tra gli alberi nudi della periferia del paese.
La strada era desolata.
Passava ogni giorno davanti a un cancello semiaperto che portava ad una piccola boscaglia, ma si era sempre limitata a proseguire senza un filo di curiosità, tutta presa dai suoi pensieri.

Strano, però: di solito provava un’attrazione quasi mistica verso i luoghi selvaggi, abbandonati e un po’ dimenticati.
In realtà, di quel posto in particolare, sapeva già molto: tantissimi anni prima era stato un albergo con piscina, poi una residenza per anziani, adesso era semplicemente uno stabile in disuso.
Doveva ammettere però che la vegetazione incolta aveva il suo fascino; tra gli alberi di pino e i rovi selvatici, si intravedeva la struttura di quello che un tempo era stato l’albergo più quotato di zona.
Ferma davanti al cancello, tirò fuori dalla memoria la fotografia sbiadita di un ricordo che credeva perduto: un corridoio lungo, la moquette dai toni caldi, le pareti color crema.


Era in bagno. Fuori dalla finestra si intravedevano le piscine, una più grande e l’altra più piccola. Il tutto era circondato da alberi e il prato, ben curato, invogliava a camminare a piedi nudi sull’erba riscaldata dal sole.
È pronto il pranzo, tutti a tavola!”. I bambini dei centri estivi infilarono le ciabattine e corsero all’interno della struttura che ospitava la sala del ristorante: pasta, patatine e hamburger. Uscì dal bagno e la confusione in sala era tale da permetterle di passare inosservata; iniziò quindi a mangiare di gusto senza fretta alcuna . Si era divertita abbastanza fino a quel momento.
Non aveva sofferto il peso di essere circondata da così tanta confusione, anzi: aveva piacevolmente scoperto che, in mezzo al caos, era più semplice stare in disparte senza dare nell’occhio.
Finito il pranzo, i bambini tornarono fuori, con l’imperativo categorico di stare lontani dall’acqua per almeno due ore.

Tempo sprecato per alcuni, ma non per lei: aveva fatto amicizia con Rebecca e insieme facevano lunghe passeggiate tra gli alberi, inventando storie fatte di nascondigli segreti abitati da spiriti e folletti.


Il cancello cigolò appena quando lo aprí; lo richiuse subito alle sue spalle e le scarpe affondarono lievemente nel terreno, bagnato dalle incessanti piogge dei giorni passati.
Se non fosse stato per le erbacce infestanti che salivano lungo il tronco dei pini, le sembrò per un attimo che il tempo si fosse fermato da molti, moltissimi anni. Un silenzio sommesso avvolgeva quel luogo incantato, con spiriti e folletti che sonnecchiavano in pace sulle rocce ricoperte di muschio.
Chiuse gli occhi.


“Attenta a dove metti i piedi!” le disse Rebecca un attimo prima di vederla inciampare su una radice sporgente.
Risero molto di quella goffaggine che, non lo sapeva ancora, l’avrebbe accompagnata per tutta la vitaCon Rebecca era tutto più semplice: poteva ridere di quello che, in altre circostanze, le avrebbe creato solo imbarazzo.
Si avvicinarono alla recinzione che dava verso est, dove la vegetazione era più fitta perché trascurata dai giardinieri, preoccupati soprattutto di tenere curata la zona intorno alla piscina.
In quell’angolo solitario un albero enorme si distingueva dagli altri, con i suoi rami spioventi e le fronde più fitte.
Rebecca aveva portato due corde lunghissime dentro uno zaino e una tavoletta di legno rubata nella cantina del nonno.
Armeggiarono quasi mezz’ora per fissare le corde ai lati della tavoletta, facendo dei nodi bruttini ma piuttosto saldi.
Ora veniva il bello: toccava a lei salire sull’albero, lo sapeva.
Poche cose le venivano bene come arrampicarsi.
Muretti, terrapieni, cancelli e sí, anche alberi: niente fin’ora l’aveva fermata.

Bisognava fissare l’altra estremità delle corde nella parte alta del ramo e bisognava farlo in fretta, prima che qualcuno, da lontano, la notasse lassù.
Ci volle meno del previsto e, una volta scesa, contemplò soddisfatta l’altalena montata.
Rebecca emise un gridolino di soddisfazione: mai prima d’ora aveva trovato una complice tanto abile che la seguisse nelle sue marachelle. Anche lei provò un moto di orgoglio.
Si alternarono sull’altalena per più di un’ora, prima sedute, poi dondolandosi in piedi. Solo quando sentirono qualcuno strillare “Tutti in piscina!!!” decisero camuffare il bellissimo gioco dietro un ramo più basso in modo che nessuno potesse scoprirlo.


Riaprì gli occhi e i folletti scomparvero. Avanzò lentamente, fino a giungere alle spalle dell’edificio principale; superò il lato corto dello stabile e si ritrovò davanti all’ingresso di un albergo ormai dimenticato, una residenza per anziani abbandonata all’incuria. In mezzo al prato uno gnomo da giardino osservava triste il panorama, mentre una sedia a rotelle arruginita sembrava attendere qualcuno che non sarebbe mai arrivato.
Si addentrò un po’ timorosa tra rovi e cespugli, per spuntare infine davanti a ciò che rimaneva delle piscine: due vasche vuote, con le mattonelle staccate, il fondo ricoperto da fango e detriti. Girò intorno alla piscina più grande e, dopo aver superato buona parte del bosco, finalmente trovò quello che inconsapevolmente cercava da quando aveva varcato il cancello.


La giornata ai centri estivi volgeva ormai al termine, sua madre sarebbe stata contenta di sapere che si era divertita. Troppo spesso sentiva su di sé il suo sguardo, velato da un filo di apprensione.
Voleva che lei si divertisse, che fosse spensierata come gli altri bambini.


Lei lo era, felice. Sapeva di esserloma non nel modo così manifesto che tranquillizza un genitore. Decise quindi di correre incontro a sua madre verso l’uscita, sorridente, solo per vederla serena.
La vide vicino al cancello, di profilo. Il sorriso tirato e lo sguardo puntato sull’insegnante che le stava parlando.


Non la sentirono arrivare.

Porti pazienza” stava dicendo la maestra “Ogni bambino ha i suoi tempi. Dopo pranzo si è allontanata dal gruppo, lo fa sempre. Si è addormentata ai piedi del faggio, vicino alla recinzione ad est. L’abbiamo lasciata riposare due ore e poi l’abbiamo svegliata per tornare in piscina. Le dia tempo, è una bimba piena di fantasia, se la caverà”.


L’albero era lì, davanti a lei, maestoso come lo ricordava. I rami, vecchi e ricurvi verso il basso, erano in parte ricoperti da piante rampicanti.
Posò il cellulare per terra, si avvicinò al tronco e lo accarezzò dolcemente.
Poi fece ciò che era inevitabile, ciò che inconsapevolmente voleva fare da quando aveva varcato il cancello.
Trovò l’appiglio giusto e iniziò a salire, con sicurezza, come se non avesse mai smesso di farlo. Si arrampicò fino in cima arrivando al ramo più grande.
Seduta a cavalcioni, guardò verso le piscine.

Tutto taceva.


Con la mano destra iniziò a strappare l’edera che si era attaccata alla corteccia, prima lentamente, poi con più foga finché, sul ramo nudo, non trovò quello che era venuta a cercare: due solchi lasciati dalle corde di un’altalena, illuminati dagli ultimi raggi di un sole ormai stanco pronto a svanire.

Due solchi profondi, segni indelebili di un gioco incantato che, trentaquattro anni prima, l’aveva cullata nella penombra di un faggio, lontano dagli occhi indiscreti di chi non sapeva sognare.

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