Entrò nel suo negozio preferito come tutti i fine settimana, talvolta ci andava anche solo per un giretto davanti agli scaffali.
Gli andava a genio quel centro commerciale, poco affollato e strutturato come un piccolo paese ben curato, con stradine lastricate sulle quali si affacciavano gli usci delle attività commerciali.
“Gli outlet sono TUTTI ALL’APERTO!“, sbottava sempre la sua segretaria.
Incredula, non si capacitava del fatto che lui si incaponisse a trascorrere il sabato pomeriggio in quel posto dimenticato da dio, invece di preferire poli commerciali decisamente più funzionanti.
Era vero: le vicissitudini giudiziarie legate a quel centro avevano soffocato ogni sussulto di ripresa e i clienti erano sempre di meno; a poco a poco si stavano abbassando le saracinesche e solo una trentina di negozi erano rimasti attivi.
A lui, però, continuava a piacere.
In realtà erano almeno sei settimane che non riusciva ad andarci, preso com’era dalle scadenze di fine anno: il natale si avvicinava e la stesura del libro lo aveva assorbito fino all’inverosimile. Stava vivendo una fase di stallo e il suo editore lo pressava per avere almeno una bozza preliminare. Quel sabato si era imposto di staccare la spina, per immergersi nella sua passeggiata abituale nell’outlet alla periferia nord di Roma.
Arrivava sempre verso le 16 e come prima cosa si concedeva un caffè con cioccolatino, mentre guardava i pochi avventori trafficare con buste e pacchetti. Quel giorno c’era forse un po’ più gente del solito, complici gli acquisti di Natale che diventavano ormai impellenti; le decorazioni sommarie che adornavano le facciate dei negozi rendevano l’atmosfera, se possibile, ancora più decadente, quasi a voler sottolineare il lento declino di un centro che mai aveva raggiunto i fasti sperati.
Solo quando varcò la soglia del suo negozio di abbigliamento preferito sentí di essere finalmente arrivato nel suo “luogo”: brusio, musica rock e risate non erano cambiati.
Mentre tutto intorno la gente si trascinava stanca e svogliata, lì dentro il Natale era arrivato da in pezzo.
Lavoravano in armonia quelle ragazze, cosi diverse tra loro, ma comunque sincronizzate come strumenti di una band ben collaudata.
La responsabile del punto vendita teneva tutto sotto controllo e, per quanto partecipasse alle chiacchiere delle colleghe, non si lasciava sfuggire una virgola del loro lavoro. Sguardo attento, sveglio, sotto quella capigliatura bionda sempre in perfetto ordine.
C’era poi la “mamma” -cosi l’aveva soprannominata nella sua testa- dall’aspetto rassicurante e benevolo, donna abituata a lavorare di gran lena. Nonostante fosse giovane come le altre, era visibilmente la più tradizionale delle tre: aveva saputo adattarsi benone al contesto e spesso l’aveva sorpresa a sorridere divertita delle loro scemenze.
La terza era una tipetta energica e sarcastica: quando pensava di non essere visita, si lasciava andare a meravigliose battute sarcastiche tali da far impallidire uno scaricatore di porto, per poi rientrare immediatamente nel ruolo della commessa tutta premure e gentilezze.
Infine c’era lei, la sua affabulatrice temeraria.
Sapeva vendere, sul serio. Non con insistenza, ma accompagnandolo in un percorso di chiacchiere e curiosità. Tra un paio di pantaloni tagliati con l’accetta e una t-shirt di dubbissima qualità, gli rifilava perle di bizzarria pura senza un’apparente logica, vagando da un argomento di discussione all’altro con peculiare maestria.
Non lo avrebbe mai ammesso con la sua segretaria, ma era per chiacchierare con quella ragazza che il sabato pomeriggio si recava all’outlet. Patetico, avrebbe pensato qualcuno, ma che male c’era se trovava ispirazione chiacchierando con una giovane donna così disarmante? Aveva almeno 15 anni meno di lui e gli occhi costantemente spalancati sul mondo.
Quel giorno, però, gli sembrò che ci fosse qualcosa di diverso in lei. Lo sguardo era distratto e sembrava particolarmente stanca, come se qualcosa appesantisse i suoi movimenti di solito così fluidi e spontanei.
Ad ogni modo, appena lo vide sulla soglia della porta, si sorrisero a vicenda. Era felice -cosi gli sembrava- di rivederlo dopo tanto tempo.
“Dragan, credevo mi avesse abbandonata per cercare ispirazione nei misteriosi angoli della sua amata Serbia.”
“Il libro procede a rilento, ma niente Serbia, per ora. Rimarrò a Roma fino a Capodanno per sistemare l’ultima bozza, magari strafogandomi di cioccolatini”.
“Poco male: ingrasserà abbastanza da richiedere un nuovo guardaroba”.
Si sorrisero e continuarono a parlare, mentre lei sistemava gli scaffali con una precisione chirurgica che spesso suscitava gli scherzi delle colleghe.
Ogni tanto c’era una piccola crepa nella sua voce, un abbassamento di tono che ombreggiava il discorso.
Qualcosa non era come avrebbe dovuto essere.
Lo aiutò a scegliere i regali per i nipoti: sciarpe e cappelli, zainetti e camicie. Lei gli chiese del Natale serbo e delle tradizioni ad esso connesse, sembrava non ne avesse mai abbastanza di conoscere cose nuove. Risero confrontando le loro infanzie e le tradizioni più assurde che si portavano dietro.
“Le assicuro che in Serbia è considerato normalissimo!“
“Beh, si lasci dire che è un’usanza meglio onorata con l’infrangerla che con l’osservarla”
“Prego?”
” Amleto, Shakespeare.”
“Ah, ecco. Oggi quasi non la riconoscevo, senza una citazione di Shakespeare o di Raffaella Carrà“, le disse lui sorridendo.
Continuarono a ridere e scherzare per altri venti minuti, mentre sceglievano gli ultimi regali e le altre colleghe li lasciavano fare.
Al momento del conto, per un attimo, gli sembrò vederla trattenere il respiro, come se fosse in procinto di dirgli qualcosa.
Fu solo una frazione infinitesimale di secondo e svanì così come era arrivata. La sensazione di disagio tornò più forte di prima.
Pagò e prese i pacchetti, con l’impressione che gli stesse sfuggendo di mano il bandolo di una cupa matassa che fino ad allora era riuscito solo a percepire.
Al momento dei saluti, lei lo sorprese uscendo dalla cassa e parandoglisi davanti; gli tese una mano e aspettò la sua:
“Ti auguro buon Natale, Dragan. E grazie per le belle chiacchierate in questa terra desolata.”
In quell’attimo capì che non l’avrebbe più vista.
Istintivamente, con un galante baciamo, le rispose:
“Grazie a te e buon Natale, tesoro”.
Era triste quando uscì dal negozio. Si fermò a guardare le tristi luci del natale che scendevano dagli alberi ormai spogli, prima di dirigersi lentamente verso la macchina.
Quella sera stessa, già lo sapeva, avrebbe finito di scrivere il libro.
Il silenzio intorno crea rumore dentro.
Un sussulto di rabbia che non riesce a scemare, soprattutto di fronte all’impotenza dei piccoli lavoratori.
Il Soratte Outlet è chiuso da anni, solo una saracinesca continua ad alzarsi. Si parlava di riapertura in pochi mesi, forse un anno o poco più.
Nel frattempo noi ce lo ricordiamo come fosse casa nostra, perché in fondo lo è stato per anni.
Quando si iniziò a parlare di fallimento ci armammo di scope, per tenerlo pulito. Alle prime voci di chiusura, rispondemmo con l’acqua, per non lasciar morire le piante in stato di abbandono.
La diaspora dei dipendenti ha radici lontane, alimentata dalla continua incertezza che aleggiava intorno alle sorti del centro commerciale.
Adesso è in stato di completo abbandono ed è diventato una cattedrale nel deserto, simbolo del “vorrei ma non posso“.
Io nel frattempo mi tengo i ricordi, le sigarette sulla panchina, il caffè alla Lindt prima di entrare a lavoro, gli sguardi vacui alla porta del negozio quando già i clienti iniziavano a scarseggiare. Porto con me la consapevolezza di aver imparato tutto li, al Soratte Outlet, con le persone giuste, nei i tempi giusti.
Perché siamo tutti bravi a vendere in un centro commerciale che ti garantisce migliaia di ingressi al giorno, ma se come professionista nasci in cattività e cresci in difficoltà, devi imparare molto, molto di più.
Porto con me il vecchietto che passava solo per fare due chiacchiere e non se ne andava più o la pariolina che, dopo gli acquisti natalizi, strappava via la scritta “outlet” dal cartellino con un filo di imbarazzo.
Mi tengo il bohemien trasferito in campagna con il suo vago sentore di alcol; girava per il negozio e mi diceva grazie per ogni cosa.
Abbandonai la nave prima che affondasse, in un rigido giorno di metà dicembre, ormai certa che non avrei più chiacchierato con Dragan.
Invece lui arrivò il giorno prima che me ne andassi, come sospinto dalla tramontana del fato.
Porto con me i racconti delle tenebre serbe e la sua voce profonda.
Una voce che, ancora oggi, potrei riconoscere un mezzo al brusio del mondo intero.
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