Scoccò la mezzanotte e la luna era coperta da un velo di nubi, tanto che avrebbe potuto spostarle semplicemente soffiandoci su. A parte il canto delle cicale e la televisione dei vicini di casa, nient’altro disturbava il silenzio compatto che avvolgeva le serate estive nella nuova casa in campagna.
La stanchezza del giorno si faceva sentire, ma ogni piccolo dolore muscolare le dava soddisfazione: il trasloco era stato devastante, in quelle calde giornate di giugno, ma il lieve fresco serale nel nuovo giardino la ripagava di tutta la fatica delle ore precedenti.
Avevano trovato quella casa quando ormai viaggiavano sul filo della disperazione mentale, tra agenzie immobiliari e annunci mirabolanti: bagni ciechi, giardini grandi poco più di un androne, venditori di speranze che odoravano di falsità.
Poi, quasi per caso, scoprirono quel villino scalcinato incastonato nelle splendide colline alla periferia del paese, come un diamante grezzo montato su un anello di grande valore.
Al riparo dalla strada principale, si era presentato ai loro occhi in stato di semi abbandono: dal cancello di legno mancavano alcune tavole e si intravedeva un vialetto trascurato che portava alla casa la quale, al suo interno, sembrava sfregiata dalla sporcizia e dalla trascuratezza sedimentate nel tempo.
Solo la facciata preservava un aspetto di sobrio decoro, quasi provasse imbarazzo per il declino a cui era stata condannata da anni.
Chiunque dotato di un filo di buon senso sarebbe fuggito a gambe levate davanti a quella topaia; lei, invece, non era riuscita a staccare lo sguardo da ciò che vedeva: un rifugio lontano da tutto, ma comunque con un filo di civiltà a portata di mano.
I mesi erano trascorsi tra viaggi alla discarica e braccia ricoperte di vernice, arnesi dal nome impronunciabile e materiale edile di ogni sorta; a poco a poco, il villino sembrava ringraziare per quella nuova possibilità che gli veniva offerta.
Il vero problema era stato però il giardino: un informe groviglio di rovi di cui non si percepiva la ragion d’essere.
Un barbecue in pietra giaveva spaccato tra l’erba fitta e un bellissimo tavolo in mosaico era ricoperto dal muschio.
Armati di attrezzi, si erano fatti strada scoprendo pavimentazioni nascoste, scale di tufo, vasi decorati sommersi dalla vegetazione e uno splendido ulivo centenario che, maestoso, li guardava dall’alto.
In un attimo era tornata ad essere la bimba di 5 anni che, libro alla mano, aveva imparato a leggere amando “Il giardino segreto” di Frances H. Burnett. Si era lasciata rapire dalla poesia di quel luogo e aveva stabilito che lo avrebbe amato per sempre.
Ora si appartenevano a vicenda, lei e il giardino, solo quella notte se ne era resa conto davvero, mentre i minuti scandivano la tranquillità conquistata.
Ogni mezz’ora passava il treno, illuminando le rotaie della vecchia ferrovia che divideva la valle; riusciva a percepire scampoli del dibattito in tv dalla finestra dei suoi vicini, ma preferiva lasciarsi cullare dal canto delle cicale.
Il sonno stava arrivando, quieto e silente. Sentiva i muscoli cedere sotto la spinta lieve del dormiveglia e assecondò le palpebre quando iniziarono a scendere.
Una voce le giunse come una eco tra le maglie del buio:
“Come va?“
Si irrigidì.
Pietrificata, non riusciva ad aprire gli occhi per paura di scoprire che non stava sognando. Era sola in casa, sapeva di esserlo: il suo compagno aveva il turno di notte.
“Aò!” tornò a vibrare più forte la voce e lei desiderò di svenire all’istante.
“Bella de zio...”.
Si girò di scatto e aprì gli occhi, frastornata dall’improvvisa sorpresa: suo zio era li, seduto con una sigaretta a fior di labbra e con la solita aria canzonatoria che da sempre gli modellava il sorriso.
“Alla buon’ora!” riprese lui, felice di guardarla finalmente negli occhi.
Lei, con malcelato stupore, rispose allo sguardo basita, mentre mille pensieri attraversavano come schegge impazzite il cervello ormai sveglio: come era entrato? Perché si trovava li?
Era sparito nel nulla anni prima, ma ora era lì, davanti a lei, con il profilo leggermente coperto dal buio della notte.
“Come va?”
Cosa rispondere, dopo tanto tempo, a una domanda così carica eppure così semplice? “Come va?”. Sapeva che suo zio non si sarebbe accontentato di qualche frase di circostanza… del resto, non l’aveva mai fatto.
E poi, troppi arretrati da raccontare: il lavoro lasciato, la pandemia, i traguardi mancati e raggiunti.
I sorrisi improvvisi e le ansie scontate.
Neanche se entrambi avessero vissuto sette vite avrebbero mai potuto immaginare un’epoca storica cosi tormentata. Per lei, cresciuta nella bambagia degli anni 80, era prevedibile lo sconforto totale. Lui, però, aveva fatto la guerra e conosceva fin troppo bene l’abisso dell’animo umano.
“Bella de zio… e fammelo un sorriso!”
Solo in quel momento si rese conto di quanto le fosse mancato, benché in realtà pensasse a lui molto spesso; nel sentire quella calata romana si sciolse e fu grata alle tenebre che le permisero di nascondere gli occhi improvvisamente lucidi.
Guardò il profilo anziano stagliato davanti a lei e cominciò quindi a parlare, con pacatezza, senza che niente lasciasse intendere che avrebbe mai smesso di farlo.
Parlò a suo zio, alla notte e alle cicale. Tutto, anche le storie più cupe, avevano il profumo della mentuccia di una calda sera di inizio estate.
Gli raccontò come andavano le cose, da 10 anni a quella parte. Parlarono di politica, la loro grande passione, delle illusioni e delle disillusioni del tempo, della natura umana che, in fondo, è sempre la stessa.
Le era mancato davvero, con quella sua ironia irriverente che mai aveva dovuto chiedere scusa a qualcuno.
La capiva meglio di chiunque altro: sapevano entrambi che ogni nuova epoca indossava gli abiti della novità e del progresso, rendendo tutto più lindo e accattivante.
Tolti quegli abiti, però, rimaneva solo uno scheletro nudo, uno schema sempre uguale a se stesso, così prevedibile.
Così banale.
Ogni tanto avrebbero voluto provare il piacere della sorpresa e non essere costantemente in anticipo su ciò che sarebbe successo; ogni volta, invece, gli schemi si ripetevano e lei rimaneva sempre irrimediabilmente delusa.
“La natura umana è quella che è, lo sai” le disse suo zio quella sera, come spesso aveva fatto in passato.
“E allora cosa ci rimane?”
“Le sfumature, ci rimangono le sfumature” rispondeva sempre lui, che affrontava la realtà con più pragmatismo di quanto lei non fosse capace.
Mentre parlavano, continuava a guardarlo.
Sembrava che per lui il tempo si fosse fermato all’ultima volta che si erano visti.
Sorrideva spesso, suo zio; ogni tanto inarcava le sopracciglia rade e bianche, tenendo in mano il pacchetto sgualcito di MS morbide.
La stava ascoltando con molta attenzione, lei lo sapeva; talvolta, nel vederlo annuire, ebbe l’impressione che -in parte- già sapesse ciò che gli stava dicendo come se, a distanza, avesse sempre tenuto un occhio discreto sulla sua vita.
Come se, in fondo, non se ne fosse mai andato.
Lui non aveva mai amato le persone che si prendevano troppo sul serio e forse, proprio per questo, gli andava a genio quella nipote così sgangherata che si ostinava a vivere ai piedi di un arcobaleno fin dalla nascita.
Scorrevano il treno e la notte lungo la ferrovia; i vicini avevano spento la televisione da tempo, le cicale continuavano a parlottare, vai a capire poi chissà di che cosa.
Non c’era stanchezza nelle parole di lei, nessun accenno di sonno negli occhi di lui. Ogni tanto le loro risate si incontravano a metà strada, fondendosi complici tra le ombre della notte.
Le nubi erano scomparse, trascinate verso nuovi approdi dalla brezza notturna .
Sapeva che non sarebbe rimasto per sempre, ma non era ancora disposta a vederlo andar via.
Non un’altra volta, non senza sapere se sarebbe tornato.
Se al mondo esisteva qualcosa che le faceva profondamente paura era il “mai più”: non riusciva a capirlo, non poteva accettarlo. Forse in questo era sempre rimasta bambina, la stessa che cercava il lieto fine tra le pagine di un libro, ostinata e caparbia fin dalla nascita.
Prese quindi il coraggio a due mani e gli chiese di restare.
Lui sorrise e si accese l’ennesima sigaretta, sapevano entrambi che quella sarebbe stata l’ultima; fumarono entrambi, in silenzio, senza che ci fu più nulla da dire.
Un alito di vento tiepido le sollevò le palpebre, facendola tornare da un mondo profondo, lontano, sicuro.
Il giardino, le cicale e il treno erano ancora li; il braccio su cui si era addormentata profumava di borotalco e mentuccia.
Suo zio non c’era più, solo la quiete della notte le faceva compagnia.
Se ne era andato come era venuto, lieve come un pensiero dai contorni sfumati; se ne era andato eppure era ancora lì, tra le fronde degli alberi mosse dal vento che iniziava a salire. Era nel legno robusto dell’ulivo centenario, nelle api dormienti che aspettavano l’alba per posarsi sui fiori di zucca.
Stavolta sapeva che sarebbe tornato da lei, non subito, non presto, ma sarebbe tornato e l’avrebbe accarezzata con lo sguardo di un’ombra. Si sarebbero incontrati lì, nel giardino segreto, tra le piante rampicanti ed il fischio del treno.
E se le avesse chiesto “come va” lei, pulendo il mondo circostante da ogni turbamento con un semplice battito di ciglia, avrebbe risposto sicura: “Ho finalmente un posto che posso chiamare casa”.
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