Sono passati 11 anni dalla morte di Stefano Cucchi, geometra morto a Roma a seguito del pestaggio da parte di due militari dell’arma dei carabinieri.
Questo dice infatti la sentenza del processo-bis: 12 anni di reclusione per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati in primo grado dalla corte di assise per omicidio preterintenzionale.
Difficile dimenticare il rilievo mediatico dato alla vicenda dopo che Ilaria, sorella di Stefano, si presentò alle telecamere con le foto scattate al cadavere del fratello: corpo tumefatto, livido.
Si parlò di epilessia, di caduta dalle scale, di malnutrizione.
Ilaria, immensa donna, non cedette mai davanti al muro di omertà che in una buia notte romana si creò intorno ai colpevoli, una cinta di protezione fatta di silenzi e di depistaggi che sarebbero stati perpetrati da 8 miltari dell’Arma (per i quali è in corso un nuovo processo).
Finché nel 2015 le dichiarazioni di un altro carabiniere, Riccardo Casamassima, squarciarono il velo pesante che avvolgeva una delle storie più nefande che abbiano mai visto la luce nella cronaca romana degli ultimi decenni.
I risvolti di questa vicenda investirono numersi e differenziati strati della società, tra garantisti granitici e colpevolisti ad ampio raggio.
La verità è che se Ilaria Cucchi non avesse lottato cosi tenacemente, dimostrando una forza d’animo che non ha eguali, non saremmo mai arrivati ad un processo equo e, poi, ad una verità giuridica data dalla condanna.
Il meccanismo di autoprotezione messo in atto da alcuni carabinieri, anche graduati, ha avuto come fine ultimo quello di preservare solo ed esclusivamente l’onore dell’Arma, infischiandosene di quello che da troppe persone è stato definito “un tossico”.
Ciò che colpisce in questa vicenda, oltre all’abominio avvenuto per mano di due servitori dell stato, sono proprio le verità taciute da chi lo stato dovrebbe servirlo, le maldicenze, l’atteggiamento da leoni in divisa che in troppi hanno avuto contro una sorella che chiedeva solo giustizia. Non per un martire, come si è scioccamente provato a strumentalizzare, ma per il proprio fratello morto ammazzato.
Sarebbe però ora di capire che la condanna morale e giuridica di questi atti infami è necessaria non solo per la famiglia di Stefano, ma anche per quei 110000 carabinieri che con questo schifo non hanno nulla a che fare.
Perché in fondo, nel prendere posizione in modo categorico, si rischia sempre di perdere le sfumature essenziali della vicenda.
Stefano Cucchi non c’è più.
Ma Ilaria c’è e merita rispetto.
Come lo meritano gli altri 110.000 carabinieri che la divisa la indossano con reale spirito di servizio.
Da una parte abbiamo una sorella che è stata denigrata, sbeffeggiata, insultata.
Umiliata.
Solo perché pretendeva chiarezza e chiedeva giustizia. Come se, in uno stato di diritto, debba essere necessario lottare contro le istituzioni per ottenerla.
Dall’altra abbiamo invece un corpo di polizia che presidia le nostre strade, i nostri paesi, uomini e donne che ci fanno sentire al sicuro.
Lo fanno sotto organico di almeno 10.000 unità e a fronte di stipendi che, diciamolo, sono francamente imbarazzanti rispetto al ruolo svolto nella nostra società e per la nostra comunità. Troppi fatti di cronaca ci ricordano come sotto le divise si celino talvolta esseri umani indegni di indossarle (pensiamo ai carabinieri di Piacenza o all’omicidio di Serena Mollicone) e sarebbe ipocrita da parte di ogni appartenente dell’arma sentirsi insultato dal doveroso sdegno popolare che si solleva davanti a tali fatti, quasi fosse peccaminoso dire ad alta voce che chi indossa una divisa non è sempre un eroe.
Ma oggi, a 11 anni dalla morte di Stefano Cucchi, bisognerebbe trovare finalmente lo sguardo freddo necessario per guardare alla vicenda con la dovuta lucidità.
Affinché nessuno cada più per le scale e ne venga colpevolizzato l’intero sistema.
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